Società del benessere comune

per Gabriella
Autore originale del testo: Redazione Pressenza
Fonte: pressenza.com
Url fonte: https://www.pressenza.com/it/2017/04/unaltra-politica-unaltra-societa/

SOCIETA’ DEL BENESSERE COMUNE – di FRANCESCO GESUALDI e GIANLUCA FERRARA – ed- ARIANNA

Intervista a Francesco Gesualdi, coautore di Società del benessere comune, edito da Arianna Editrice.

Il libro che hai prodotto assieme a Gianluca Ferrara giunge alla conclusione che solo organizzando un sistema su basi totalmente nuove, di tipo non mercantile, è possibile salvare questo pianeta e questa umanità. Ma ricostruisce anche le tappe attraverso le quali si è giunti alla situazione attuale. Puoi sintetizzarle per sommi capi?

Ci siamo spesso illusi di poter addomesticare questo sistema e a tratti abbiamo pure avuto l’impressione di avercela fatta. Magari nel trentennio post-bellico del secolo scorso, quando anche i padroni del capitale erano convinti dell’utilità di distribuire meglio la ricchezza e di vivere sotto la guida di governi che pilotavano l’economia e garantivano alti livelli di sicurezza sociale. La bassa disoccupazione dava forza ai sindacati che strappavano continui aumenti salariali, mentre il vento in poppa della crescita consentiva ai governi di destinare quote crescenti di ricchezza alle spese sociali. Ma arrivò il tempo in cui i padroni del capitale dissero basta e la scena politica venne conquistata da Thatcher e Reagan che inaugurarono l’era del neoliberismo. Demolito il sindacato e svuotato lo stato di funzione sociale e potere economico, la legge del mercato ha iniziato a sventolare come unico vessillo. Ne è venuta fuori la società del male comune  caratterizzata da una ricchezza sempre più maldistribuita, il potere economico sempre più concentrato nelle mani di pochi, il debito come pratica sempre più diffusa. Intanto la crescita, perseguita a livello globale, ha avvantaggiato solo poche élites, aggiungendo all’esercito degli scartati quello degli sfruttati e dei precari. E sullo sfondo delle macerie sociali, la disfatta del pianeta come testimoniano l’assottigliarsi delle risorse e l’accumulo dei rifiuti.

L’insostenibilità e la crudeltà di questo sistema sono sotto gli occhi di tutti, eppure non si vede comparire all’orizzonte una vera opposizione. Anzi le forze più reazionarie sembrano rialzare la testa.

La legge del mercato ha conquistato la mente di molti e non c’è da stupirsi se l’atteggiamento di tanti è la rassegnazione. Per quanto spiacevoli, certi aspetti sono ormai considerati parte integrante della  vita e come è inutile arrabbiarsi col vento o con la grandine, allo stesso modo è inutile ribellarsi alla disoccupazione, alla precarietà, all’incertezza. Tutt’al più si può cercare di guadagnarsi un buon posto lottando con tenacia nella battaglia quotidiana del tutti contro tutti. Una logica ampiamente assorbita dalla quasi totalità dello schieramento parlamentare che ritiene di non avere nient’altro da fare se non creare un contesto attraente per le imprese affinché tornino a creare opportunità di lavoro non importa a quali condizioni salariali e quale livello di diritti. Di qui il Job’s act, le riduzioni fiscali, le sovvenzioni alle imprese. E rimanendo in una logica altrettanto mercantilista ecco l’arrivo dei partiti nazionalisti che gettando la colpa di tutti i mali sull’esterno, offrono come soluzione i muri per impedire l’ingresso agli stranieri e gli eserciti per conquistarsi le risorse e i mercati altrui. Due proposte, quella liberista e quella protezionista, identiche nello spirito, ma diverse nei modi. Entrambi difendono la posizione dei più forti, senza nessun rispetto per le persone, né per l’ambiente; ma mentre i liberisti concepiscono il mondo  come un’arena popolata esclusivamente da imprese che indipendentemente dalla nazionalità gareggiano fra loro per la conquista del mercato mondiale, i protezionisti concepiscono il mondo ancora come economie nazionali autorizzate a usare qualsiasi mezzo pur di vincere. Personalmente li condanno entrambi e rivendico il diritto a lottare per un’altra economia mondiale fondata sul rispetto, sull’equità e sulla solidarietà per il riconoscimento dei diritti di tutti.

Ti pare che questa posizione sia condivisa anche da altri?

Fortunatamente c’è chi ha mantenuto capacità critica, ma con comportamenti opposti. Da una parte ci sono gli olistici che, particolarmente attenti ai temi della qualità della vita e dell’ambiente, si concentrano su ciò che possono fare a livello individuale e locale, ignorando, o quasi, la dimensione di sistema. All’opposto ci sono i militanti vecchia maniera che con uno spiccato senso della politica si occupano  prevalentemente delle grandi tematiche di sistema, ma spesso in maniera zoppa. Nel senso che si occupano della distribuzione della ricchezza, dei rapporti di potere e dei temi sociali, ma dimenticano quelli ambientali e della qualità della vita.

A tuo avviso quale atteggiamento serve per contribuire efficacemente al cambiamento?

Per le problematiche che oggi ci stanno di fronte, sarebbe oltre modo necessario un altro tipo di cittadinanza capace di fondere la dimensione individuale con quella di sistema, quella sociale con quella ambientale, quella sperimentale con quella rivendicativa. In altre parole servirebbe un impegno multidirezionale in un pensiero complessivo. Spesso si cade in contraddizione perché ci si occupa di aspetti specifici senza metterli in relazione fra loro. Ormai, tutti lo sanno, la crisi del pianeta associata alla necessità di quattro miliardi di esseri umani di raggiungere livelli di vita più dignitosi, impongono ai paesi ad alto reddito pro-capite di confrontarsi col senso del limite. Detta in un altro modo non ci sono più gli spazi per crescere e ciò preoccupa in particolare i progressisti perché in questo sistema la fine della crescita rende più difficile la lotta per l’uguaglianza e mette a repentaglio il lavoro salariato, ad oggi l’unica via a disposizione dei più per procurarsi da vivere. Il che ci obbliga a una doppia sfida: l’una immediata, l’altra di lungo periodo. Quella immediata per ottenere correttivi di sistema capaci di attenuare subito i danni per i più deboli. Quella di lungo periodo per dotarci di un altro progetto di società che abbia come fine quello di garantire a tutti una vita degna senza crescita di consumi e produzione. Una sfida, quest’ultima, particolarmente difficile perché ci obbliga a rimettere tutto in discussione: gli stili di vita, la concezione del lavoro, il ruolo del mercato, l’organizzazione dell’economia pubblica. Ma dobbiamo prendere coscienza che senza un progetto di società non è possibile neanche la politica del giorno per giorno perché abbiamo capito che dentro le logiche di sistema i problemi non si risolvono, bensì si aggravano. In altre parole solo applicando criteri alternativi, ispirati a senso di solidarietà e sostenibilità, potremo trovare soluzioni immediate. Per riuscirci, però, dobbiamo cominciare a chiederci quale economia, per chi e per che cosa, vogliamo organizzarla. Il libro che ho scritto con Gianluca Ferrara offre nuove risposte a questi interrogativi.

Un’altra politica per un’altra società

Leggi un estratto dal libro di Francesco Gesualdi e Gianluca Ferrara “La Società del BenEssere Comune”

 da www.macrolibrarsi.it

Siamo giunti alla fine di un’epoca storica. Un’epoca che è cominciata con la Rivoluzione industriale e sta terminando con la finanziarizzazione dell’economia, ove a creare ricchezza non sono più i mezzi di produzione e la forza lavoro ma i computer della grande finanza internazionale.

I capitali non si accumulano più in virtù di una manodopera sottopagata; oggi una fetta consistente della ricchezza è generata dal nulla, con pochi click, da computer che tramite sofisticati algoritmi fanno muovere a folle velocità immense somme di denaro. È la società del male comune, in cui l’individualismo e il mercato hanno sottomesso il senso di comunità e lo spirito di condivisione.

È la vittoria dell’Io sul Noi, la celebrazione della società darwinista ove il più forte sottomette il più debole.

Una vera rivoluzione antropologica, che nell’inconsapevolezza dei più, in pochi decenni, ha minato i pilastri su cui si è da sempre retta la nostra umanità. Viviamo un tempo in cui si costruiscono esistenze senza basi etiche, culturali e spirituali. Non siamo più cittadini sovrani, espressione di quella pluralità che caratterizza la nostra specie, ma consumatori succubi di un pensiero unico, ove la politica soggiace ai dogmi economici.

Il secolo trascorso è stato caratterizzato inizialmente da politiche liberali ispirate a pensatori come Adam Smith; poi, dopo il crollo del 1929, si è cominciato ad attuare politiche keynesiane, che hanno permesso di ricostruire le tante infrastrutture andate distrutte dopo il secondo conflitto mondiale. L’intervento dello Stato nell’economia fu un volano fondamentale per far ripartire il motore della crescita.

Dopo il trentennio glorioso, alla fine della sua espansione caratterizzata da inflazione e stagnazione (stagflazione), si è avuta la controrivoluzione neoliberale. L’elezione di Margareth Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti fu determinante per il diffondersi in Occidente delle teorie neoliberali, che dopo il 1989, caduto il muro di Berlino, debordarono anche nell’Est Europa per poi, senza più antagonisti, colonizzare l’intero pianeta.

Ma oggi anche la controrivoluzione neoliberista sta finendo, tra la disoccupazione, gli indebitamenti e un crescente aumento della sperequazione tra i pochi che posseggono quasi tutto e i tanti che non hanno nulla. Secondo il rapporto Un’economia per l’1% del 2016 della ONG britannica Oxfam, i 62 uomini più ricchi del mondo posseggono un patrimonio equivalente a quello dei 3,6 miliardi più poveri.

Oggi ci troviamo a un bivio; pensare in Occidente di intraprendere una nuova stagione come quella cominciata dopo il secondo conflitto mondiale è utopico. La folle presunzione di poter crescere in maniera infinita in un pianeta dalle risorse finite non è più praticabile.

Le conseguenze di un paradigma senza limite si palesano anche in quei fenomeni, definiti con un certo grado di ipocrisia come “terrorismo”, che sono ripercussioni di politiche imperialiste miranti ad accaparrare sempre nuove risorse. Le recenti guerre in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, che hanno destabilizzato un’intera regione e generato enormi perdite di civili, sono tutte conseguenze della società della crescita. Una società pianificata da un’élite senza scrupoli, che non vuole rinunciare a uno stile di vita impossibile da estendere all’intero pianeta.

Alle devastazioni economiche e belliche, frutto della società del male comune, vanno aggiunte quelle ambientali.

La comunità scientifica ci informa che, se continuiamo a usare l’atmosfera come pattumiera continuando a gettarci gas climalteranti, le temperature in questo secolo potrebbero aumentare fino a 5 °C. Sarebbe una catastrofe. Desertificazioni, inondazioni, incendi, alluvioni a cui stiamo già assistendo potrebbero intensificarsi e diventare fenomeni quotidiani. Gli spazi vitali sono destinati a ridursi in maniera significativa e le guerre per accaparrarsi le ultime risorse disponibili si moltiplicherebbero in maniera esponenziale. Come ipotizzato da alcuni biologi, potremmo avere già imboccato la strada dell’estinzione.

La certezza è che l’odierno paradigma economico che domina i nostri tempi non ha più futuro. Occorre transitare in un nuovo modello di società, alternativo a quello vigente.

Va sviluppata un’altra idea, la quale dev’essere uno stimolo per virare dalla strada che ci conduce al precipizio. È la società del benessere comune, in cui le nostre esistenze non sono più declinate con l’Io ma con il Noi.

Negli ultimi quattro decenni, siamo stati talmente inondati dalla mentalità mercantile che il senso di comunità ci sembra un miraggio. Diritti come l’abitazione, l’istruzione, il cibo, la sanità sono diventati battaglie quotidiane. I perdenti in queste battaglie sono sempre di più e diventano scarti di una società senza più sicurezze, senza reti di protezione. Nella società del benessere comune, ai privati non può essere permesso di gestire la moneta o l’energia; persino l’acqua è stata privatizzata. Poche lobby, attraverso una colonizzazione culturale veicolata da mass media di loro proprietà, si sono impossessate di tutti i settori vitali che invece devono essere gestiti dalle comunità.

Nella società del benessere comune i diritti non vanno conquistati ma garantiti. Secondo il Sipri di Stoccolma, nel 2015 si sono investiti in armamenti 1800 miliardi di dollari: una cifra immensa che, oltre a seminare morte e nuove divisioni, ha gonfiato i conti correnti delle lobby degli armamenti. Se anche solo una parte di questa somma fosse investita per il bene comune, l’intera umanità vivrebbe nel benessere e si potrebbero dedicare energie e tempo allo studio, alle relazioni, alla conoscenza e all’accettazione di se stessi e degli altri. Vanno ricostruiti pilastri etici come solidarietà e fratellanza, a prescindere dalla razza, dal genere e dalla religione. La vera sfida da vincere è culturale, prima che economica.

Vanno rinsaldati quei legami sociali recisi con diabolica precisione al fine di separare i cittadini per trasformarli in consumatori solitari.

La storia dell’uomo è stata per secoli caratterizzata da pratiche come il dono, lo scambio e l’autoproduzione. Tutte attività antitetiche alla società mercantile e per questo sradicate dalla cultura comune. La colonizzazione mercantile ha affondato i propri artigli anche in realtà come quella africana o indiana, in cui l’autoproduzione ha sempre garantito la sussistenza; sradicare le economie di sussistenza ha significato condannare a morte, negli ultimi quattro decenni, decine di milioni di persone ogni anno. Un olocausto pianificato a partire dagli anni Settanta da multinazionali, le quali hanno depredato territori e stravolto tradizioni e pratiche che per secoli si sono tramandate.

In riferimento allo slogan nazista “Arbeit macht frei”, Primo Levi disse: «L’ideologia ufficiale nazista credeva veramente che il lavoro fosse liberatorio […] Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio».

Nell’odierno totalitarismo 2.0 sembra prevalsa questa nefasta logica mercantile che associa lavoro a libertà. La maggior parte dei cittadini è succube del salario, essendo state stralciate le suddette attività che da sempre hanno mediato i rapporti umani. Senza un salario, si è condannati all’oblio sociale. Un oblio voluto, perché una maggiore offerta di manodopera di cui disporre equivale a salari più bassi.

La realtà è che con la controrivoluzione neoliberista il ruolo degli Stati è stato depotenziato fino a diventare insignificante. Se volesse, lo Stato – inteso come noi cittadini, e non quell’entità astratta, coercitiva e burocratica cui è ridotto – potrebbe assumere ogni disoccupato e impiegarlo nella miriade di lavori utili di cui il Paese ha bisogno. Si pensi solo a quanto lavoro diretto e indiretto si creerebbe se lo Stato si impegnasse a finanziare la conversione degli edifici che crollano alla prima scossa in strutture antisismiche. Magari coibentando questi edifici evitando dispersioni e rendendoli autonomi dal punto di vista energetico trasformando i tetti in piccole centrali elettriche alimentate con i raggi del sole. Oltre al lavoro, si porrebbe fine alle guerre per il petrolio e il gas che hanno caratterizzato gli ultimi anni.

Dove reperire i capitali è un altro falso problema. I soldi, se non fosse stata rubata anche la sovranità monetaria, si creano dal nulla con pochi click.

Come vedremo in seguito, dal 2007 al 2013 le banche centrali di tutti i Paesi industrializzati hanno aumentato la loro base monetaria in maniera vertiginosa. Ma quei capitali servivano per consegnarli a delle banche che in precedenza avevano truffato i cittadini, accusati persino della crisi perché colpevoli di aver vissuto al di sopra delle loro possibilità.

Intanto, nel teatro dell’assurdo tutti i politici quotidianamente recitano il copione scritto dai grandi potentati economico-finanziari, in cui si cantano le lodi del mito della crescita economica che creerebbe nuove occupazioni. Politici ed economisti come sciamani moderni ballano intorno a questo totem del PIL, auspicando in un suo anche lieve segnale di crescita. Eppure, come vedremo, crescita non è sinonimo di occupazione, anzi, è vero il contrario. La delocalizzazione e soprattutto l’automazione produrranno crescenti legioni di disoccupati. Se non saranno previste le nuove formule comunitarie che in questo testo abbiamo segnalato, ci si avviterà nel solito schema fatto prima di un crescente conflitto sociale e poi di nuove guerre che ridurranno la popolazione e distruggeranno quelle infrastrutture che poi possono essere ricostruite.

Oggi ci sono persone che muoiono o si tolgono la vita per il troppo lavoro e altre che fanno la medesima fine perché di lavoro non ne hanno.

Se la politica non fosse succube dei dogmi mercantili, si potrebbe ridurre l’orario di lavoro. Se i sindacati avessero seguito questa strada (invece di puntare sull’aumento dei salari), non ci troveremmo nell’odierna situazione disastrosa. Nemmeno l’uomo primitivo dedicava tanto tempo a garantirsi la sopravvivenza. Oggi si vive per produrre e non il contrario; inoltre, quale lavoro va creato?

In nome del lavoro salariato si rendono complici gli operai di crimini; si pensi, restando nel nostro Paese, alle quasi 700 tonnellate annue di polveri emesse da fabbriche come l’Ilva. In nome del lavoro e della crescita si trascorrono anni e anni sotto un neon, per raccogliere un salario gettato ai piedi come elemosina da quelli che un tempo si chiamavano padroni. Elemosina da spendere il fine settimana in megacentri commerciali di proprietà del solito pugno di Paperon de’ Paperoni.

Nella società del male comune, a trionfare è l’infelicità perché a prevalere non sono i propri sogni ma i bisogni indotti.

Nella società del benessere comune il tempo da dedicare alle relazioni è più prezioso, rispetto al denaro usato per acquistare dosi crescenti di oggetti. Nella società del benessere comune i cittadini non sono schiavi del binomio produzione-consumo, che li relega a una perenne competizione che genera pochi vincitori e tanti perdenti.

Nella società del benessere comune sono garantiti a tutti gli stessi diritti e la stessa dignità e a prevalere è l’essere, non l’avere. Nella società del benessere comune nessuno rimane indietro.

In questo libro si vuole proporre un’altra idea di società, rispetto a quella odierna generatrice di infelicità e insicurezze. La si vuole proporre partendo da nuovi modi di concepire il lavoro e il consumo, e quindi soffermando l’attenzione sull’importanza di capire cosa va prodotto e cosa può essere oggetto delle logiche del mercato, che può mediare i bisogni e non i diritti fondamentali cui fa riferimento la nostra Costituzione.

Questo libro è un manuale di istruzioni per costruire una società del benessere comune, che però può realizzarsi solo con la partecipazione di tutti.

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