Contro la disuguaglianza: come e perché. Un manifesto

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Vincenzo Visco - Bianca Di Giovanni
Fonte: Etica e società

intervista a Vincenzo Visco di Bianca Di Giovanni,  Huffpost – 20 settembre 2017

“Renzi è l’uomo dei condoni di sinistra”

“Un manifesto contro le diseguaglianze, rivolto a tutti quelli che sono interessati. L’obiettivo è quello di creare un minimo di interesse su una delle questioni fondamentali del nostro tempo, che in Italia viene di fatto ignorata, non se ne occupa nessuno”. Vincenzo Visco presenta così a Huffpost il documento elaborato dal Nens e da Etica e Economia che presenterà domani assieme a Romano Prodi. Alla vigilia del varo della nota di aggiornamento al Def e della legge di bilancio, l’ex ministro del Tesoro mette una pietra tombale su una delle ultime indiscrezioni circolate, la voluntary disclosure sui contanti sommersi. “Come ho già detto l’anno scorso – dichiara – è riciclaggio di Stato. C’è poco da dire sulla la provenienza di quei soldi. Una norma così non si può votare, ma mi pare che l’ipotesi stia già tramontando, per fortuna. Già si è ecceduto in condoni negli ultimi anni. E dire che questo una volta era appannaggio della destra, di Berlusconi e Tremonti, e Renzi ha fatto i primi condoni del centrosinistra”. Fuoco ad alzo zero sulle sanatorie, giudizio tranchant sulle politiche per il lavoro: “Un disastro”.

Professor Visco, dice che di diseguaglianza non si occupa nessuno mentre il governo annuncia nuove misure contro la povertà.

“La povertà è solo un pezzo della diseguaglianza. Il centro del problema è un altro, è molto più robusto e pregnante. Nel manifesto c’è un’analisi di quello che è successo negli ultimi decenni in giro per il mondo, in particolare nei Paesi occidentali, dove le diseguaglianze si sono accentuate in maniera impressionante. C’è stata uno spostamento molto forte, 10-15 punti di reddito, dai salari ai profitti. All’interno dei redditi da lavoro c’è stata una polarizzazione fortissima a favore dei più ricchi, a spese delle classi medie, del lavoro dipendente. Questo ovviamente ha qualcosa a che vedere con il malessere sociale che c’è. I dati vengono spiegati, e poi c’è una serie di proposte, molte delle quali hanno a che vedere con l’assetto dell’economia globale, altre che possono essere declinate a livello nazionale, ma comunque c’è implicita una strategia di lotta contro questa situazione, che diventerà sempre più esplosiva. Prima o poi qualcuno dovrà occuparsene, anche se la corrente mainstream dell’economia tende a ignorarla perché ritiene che le diseguaglianze siano il risultato delle capacità di ognuno di avere quello che merita. Noi dimostriamo che non è così”.

Passando alle misure della legge di bilancio, una delle ultime indiscrezioni ripropone la voluntary disclosure sui contanti in Italia. C’è una parte del Pd che ritiene di dover affrontare questo tema in modo pragmatico, essendoci in Italia circa 180 miliardi chiusi nelle cassette. Lei è poco pragmatico?

“Sinceramente credo che la cosa sia stata già accantonata. Insomma, questi soldi da dove vengono? Lo sappiamo tutti: dall’economia della malavita, da corruzione e da evasione fiscale. Quindi c’è poco da essere pragmatici. L’anno passato ci fu il caso Corona, che bloccò l’operazione. Oggi questi vogliono spendere soldi, non ce li hanno, e quindi si inventano la qualunque. Evidente che una norma del genere non potrebbe mai essere votata da persone specchiate e per bene”.

Secondo lei Renzi ha fatto condoni? Quali?

“La rottamazione delle cartelle è un condono, sicuramente”.

La crescita all’1,5% segnala una ripresa strutturale o solo congiunturale?

“La crescita strutturale è una crescita autonoma che deriva da maggiori investimenti. Questo è un rimbalzo congiunturale, per giunta noi siamo sempre mezzo punto sotto la media europea. Meno male che c’è, intendiamoci, ma non si sa quanto durerà. Le previsioni per l’anno successivo sono a scendere, da 1,4-1,5% a 1,2-1,3%. Insomma, è un fenomeno contenuto e incerto. Ma, ripeto, va bene così: il problema è come rendere stabile la ripresa”.

L’altro risultato che il governo rivendica è quello sul lavoro.

“Mi pare un disastro, più che altro. Hanno fatto il Jobs Act per aumentare l’occupazione stabile, e il risultato è che c’è stato un fortissimo aumento dell’occupazione a termine. È un’occupazione molto aleatoria, con retribuzioni bassissime, con lavoratori in condizione di minorità rispetto alle imprese, e oltretutto si tratta di tutti lavori a bassissima produttività, tant’è che la produttività si riduce invece di aumentare. Per una buona occupazione serve una forte crescita e investimenti delle imprese più avanzate. Ma questo non c’è. Poi, naturalmente, è meglio avere uno straccio di lavoro, seppure precario e malpagato, che non avere nulla. Però questo non mi conforta troppo”.

Renzi continua a ripetere: meno tasse. Lei non condivide?

“Questo è lo slogan delle destre in tutto il mondo. Il problema è capire cosa accade a fronte di meno tasse. Se questo significa, come è successo in Italia negli ultimi anni, tagliare il welfare, questo non va bene. Insomma, le tasse non sono un capriccio: servono per fare delle cose. Tra queste cose, in Europa occidentale, c’è un sistema di welfare, c’è la sanità e la previdenza, l’istruzione, ecc. Se poi ridurre le tasse significa ridurre o non aumentare gli investimenti pubblici, questo è un altro errore gravissimo, perché si rinuncia a una possibilità di crescita più sostenuta del Paese. Questi su meno tasse sono slogan: lasciamoli a Berlusconi, no?”

Però forse poi con questi slogan si vince.

“Non lo so, perché ormai è abbastanza facile stabilire il collegamento tra i tagli al sistema del welfare e queste politiche. Dopodiché bisogna vedere meno tasse per chi: finora la maggior parte degli sgravi fiscali e contributivi sono stati in favore delle imprese, le quali hanno aumentato i profitti ma non hanno aumentato gli investimenti e molto poco l’occupazione. Questa è una politica sbagliata”

Padoan continua a dire che c’è un sentiero stretto. Significa che c’è ancora il diktat dell’austerità?

“Non facciamo confusione: qui non c’è nessun diktat. Non è che se si esce dall’austerità un Paese come l’Italia ha margini di spesa senza limiti. Il sentiero è stretto perché noi abbiamo un debito molto alto e dobbiamo stare attenti ai mercati, che potrebbero punirci se pensano che non siamo in grado di sostenerlo. Per questo bisognerebbe fare, nei vincoli che ci sono, delle politiche di sviluppo più possibile efficaci. Noi al Nens un anno fa abbiamo fatto un esercizio controfattuale. Abbiamo sommato tutti gli sgravi, i contributi, le flessibilità che sono stati utilizzati, e ci siamo chiesti cosa sarebbe accaduto se fossero stati investiti in attività ad alto moltiplicatore. Il risultato è che avremmo avuto una crescita doppia, meno disavanzo e meno debito. Quindi, le strade ci sono, anche dentro i vincoli”.

Tutti parlano di investimenti, ma in Italia è difficile investire.

“Questo è il punto vero. Quello su cui ci si dovrebbe concentrare è capire quali sono le strozzature, qual è il problema per cui da noi il ciclo medio degli investimenti in opere pubbliche è 9 anni, che è una follia. Si sarebbe dovuto ridurlo a un terzo, attivando i progetti, analizzando le procedure. Queste sono le questioni aperte”.

Sugli investimenti è d’accordo anche il sindacato, che però chiede anche altre cose, tra cui lo stop all’aumento automatico dell’età pensionabile. Lei è d’accordo?

“Credo che qualcosa da modificare probabilmente c’è. Tra l’altro da noi l’aspettativa di vita negli ultimi anni si sta riducendo, quindi è probabile che si stia parlando di un aumento che non ci sarà. Insomma, è un tema su cui bisogna ragionare, ma è importante essere equilibrati”.

Sul fronte della politica, le vicende dei gruppi a sinistra del Pd mostrano ancora un mondo dilaniato da questioni sulla leadership e le alleanze. C’è chi parla di inclinazione al suicidio o all’autolesionismo.

“Sciocchezze, anzi negli ultimi tempi c’è stata una convergenza molto maggiore, dopo le ultime dichiarazioni di Pisapia. Dopodiché è partito l’attacco frontale anche a Pisapia, perché l’idea è invece proprio quella di evitare che a sinistra del Pd si crei qualcosa di consistente. Non dobbiamo farci condizionare da questo. Il problema è che il Pd è in caduta libera nel consenso dei cittadini. Bisogna evitare che questa gente si rifugi nell’astensionismo. Tra l’altro anche i 5 Stelle non hanno una salute molto robusta in questa fase. Oggi tutti aspettano di vedere cosa accade in Sicilia. È ovvio che i partiti che potrebbero essere danneggiati da una lista moderata, un po’ più a sinistra del Pd, che tanto a sinistra non è, sono infastiditi”.


 

Contro la disuguaglianza: come e perché. Un manifesto[1].

 

Premessa e sintesi

 

La diseguaglianza è il problema fondamentale del nostro tempo. Le difficoltà politiche, il malessere sociale, il disagio economico hanno origine anche, e soprattutto, nella crescita senza precedenti delle diseguaglianze economiche che si collegano a quelle sociali e culturali. La tenuta delle nostre società è a rischio.

Un Manifesto è uno strumento assertivo e, in qualche modo, di parte, ma fondato su solidi argomenti, con cui si intende richiamare l’attenzione su un problema, del quale vengono sinteticamente illustrate le caratteristiche di fondo e per il quale si indicano schematicamente le soluzioni che, peraltro, non sempre sono immediatamente realizzabili. Ma, come è stato detto, il tempo può rendere politicamente inevitabile ciò che appare politicamente impossibile.

Con questo breve documento intendiamo ricordare che negli ultimi 30 anni si è prodotta una fondamentale discontinuità negli equilibri economici e politici dell’Occidente, fornire elementi di informazione sulle caratteristiche e le dimensioni dei fenomeni che ne sono derivati, dare brevemente conto della  discussione accademica sia sulle loro cause profonde, sia sui rimedi per i quali occorrerà battersi per un tempo non breve. Solo una presa di coscienza adeguata può fornire gli strumenti per una reazione adeguata alla gravità della situazione.

La crescita della diseguaglianza si è manifestata praticamente in tutti i comparti dell’economia e in quasi tutti i paesi, anche se con differenze talvolta significative. Negli ultimi 30 anni si è verificato un enorme spostamento di reddito dai salari ai profitti e alle rendite (un tempo si sarebbe detto dal lavoro al capitale): intorno ai 15 punti di Pil; all’interno dei redditi di lavoro, lo spostamento è stato dalle classi medie, dagli operai e dagli impiegati verso i dirigenti, i manager e i professionisti; i rentiers hanno visto migliorare dovunque la loro posizione. Inoltre, la disoccupazione è diventata un problema sempre più difficile da gestire: le economie, anche per la debolezza degli investimenti, rischiano la stagnazione e hanno bisogno di stimoli artificiali basati sull’indebitamento per funzionare, ma questo crea problemi di stabilità finanziaria e accresce il rischio di crisi e recessioni che riversano i loro effetti negativi soprattutto sui lavoratori, sulle classi medie e sui giovani. Nella “coda” inferiore della distribuzione dei redditi la diseguaglianza si trasforma in povertà….

Questa situazione non si è prodotta per caso. Essa è il risultato del capovolgimento del compromesso “keynesiano” che è stato alla base del funzionamento delle economie capitalistiche nel secondo dopoguerra. Allora, memori dei disastri della crisi del ’29 e dei rischi rappresentati dalle idee socialiste e dalle rivoluzioni comuniste per la sopravvivenza dei sistemi liberali, i governi dell’occidente accettarono di creare un contesto di regole e normative idonee, tra l’altro, a far sì che i benefici della crescita venissero divisi equamente. Il sistema funzionò egregiamente per vari decenni, ma fu poi travolto dalle controrivoluzioni di Reagan e Thatcher che ripristinarono la  convinzione liberista che il mercato lasciato a sé stesso avrebbe risolto ogni problema. L’effetto finale è stato quello di sostituire al principio democratico quello capitalistico: non più “una testa un voto” ma “un dollaro un voto”. Così sono stati modificati alcuni fondamentali equilibri economici politici e sociali con conseguenze che oggi sono ben visibili.

Alla base delle diseguaglianze odierne vi sono precise scelte politiche  che hanno condotto, tra l’altro, a mutamenti radicali nella distribuzione del potere economico, tra sindacati ed imprese, all’interno delle imprese – mentre  venivano indebolite le funzioni delle democrazie nazionali -, alla nascita di  nuovi e molto potenti monopoli; alla maggiore facilità per i ricchi di non pagare le tasse; al più forte condizionamento dei governi da parte dell’accresciuto potere economico; all’esclusione di ampi settori della società dalla vita sociale. E anche a causa di tutto ciò la  mobilità sociale è praticamente scomparsa: il destino dei figli  dipende sempre più dalla condizioni dei loro genitori e per i figli dei ricchi è sistematicamente più roseo di quello dei figli della “gente normale”.

I tentativi di giustificare le diseguaglianze non sono convincenti: la loro crescita non sembra giustificata dallo sviluppo tecnologico; l’affermarsi di una classe di nuovi ricchi presunti titolari di capacità fuori dal comune, e perciò da remunerare profumatamente, riflette in realtà  diffusi e non sempre ben visibili poteri di monopolio, che si inquadrano nella pericolosa tendenza verso un capitalismo oligarchico; l’idea, frequentemente proposta, che la diseguaglianza  sia necessaria alla crescita economica, e perciò possa essere non solo giustificata ma perfino benefica, viene smentita dai fatti e dai molti  studi (anche del Fondo Monetario Internazionale e dell’OCSE) che mostrano, invece, come le disuguaglianze possano frenare la crescita.

Il Manifesto elenca 28 interventi o politiche che potrebbero correggere la situazione attuale.  L’elenco non è certamente completo, ma indica la strada da percorrere.

L’obiettivo di queste politiche non è quello di condurci verso una grigia società nella quale vige un ottuso egualitarismo economico. Piuttosto si tratta di aspirare a creare una società più dinamica, più mobile e più giusta che, come tale, può contemplare anche disuguaglianze economiche. Ma saranno, diversamente da gran parte di quelle che oggi dominano, disuguaglianze accettabili.

Alcune di quelle politiche potrebbero essere adottate subito, altre richiedono di superare molte difficoltà, con pazienza e determinazione. Alcune possono essere introdotte a livello nazionale, per altre sono necessarie soluzioni sovranazionali. E’ una strada lunga, conflittuale e  difficile, ma il problema va affrontato per quello che è.  E’ pericoloso ignorare il problema ed è inutile minimizzarlo, pensando che bastino pochi e semplici correttivi per risolverlo.  Si tratta, in realtà, di modificare i meccanismi fondamentali di funzionamento delle nostre società e di mettere un freno agli interessi di ceti potenti e mai sazi.

Leggi il Manifesto completo

[1]  Questo Manifesto è il risultato del lavoro congiunto di  Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Ruggero Paladini, Andrea Pezzoli, Michele Raitano, Vincenzo Visco.

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