Fonte: Gambero Rosso
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«Sono passati tanti anni, ormai si può raccontare», dice sorridendo. Un aneddoto complesso, «un gioco di inganni», in cui il protagonista è il vino. Marzo 1999. Squilla un telefono a Palazzo Chigi. «Pronto?». Risponde l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema. È lui a raccontarcelo. «Avevo invitato in Italia il presidente dell’Iran Mohammad Khatami». Un viaggio storico: il primo in Europa di un capo di stato iraniano a vent’anni dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Non tutti gli apparati dello Stato accolgono di buon grado la notizia. Ma il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, tranquillizza D’Alema: «Fai bene, mi dice».
Il Quirinale inizia i preparativi per il pranzo a Villa Madama, per protocollo sono loro a doversene occupare. L’ufficio del Cerimoniale cura tutto nei minimi dettagli, entrate, uscite, chi prima, chi dopo, strette di mano, posti a sedere, bandierine sul tavolo; non si può sbagliare niente.
Una settimana prima del pranzo a Chigi squilla di nuovo lo stesso telefono. Stavolta è Jacques Chirac. Anche lui avrebbe dovuto accogliere di lì a poco Khatami in Francia. D’Alema ricorda: «Era agitatissimo». Il presidente della Repubblica francese gli comunica che la controparte iraniana non vuole che durante i pranzi ufficiali ci sia il vino. «Come?». «Sì, niente vino a tavola, ma è inaccettabile Massimo». Chirac non sente ragioni, è indignato. «Non possiamo accettare, il vino ci sarà». D’Alema lo tranquillizza e chiama il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Ma scopre l’amara verità: «Il Cerimoniale del Quirinale aveva già concordato che non ci sarebbe stato il vino». Un pasticcio, si rischia la crisi diplomatica. Fa una pausa, poi sorride. Di anni ne sono passati venticinque.
Presidente del Consiglio, il primo e unico con un passato nel Partito comunista, ministro degli Esteri. Presidente dei Ds prima e segretario nazionale del Pds poi. Ha contribuito a fondare il Pd. Sette volte deputato. Pure europarlamentare. Un avversario: Silvio Berlusconi. Forse due se si conta Matteo Renzi. Una grande passione per il vino. Non basterebbe un intero articolo per elencarne il curriculum. Ci accoglie nello studio ordinato di piazza Farnese a Roma, dove ha sede la sua Fondazione Italianieuropei. Una scrivania, un piccolo tavolo per gli incontri. Libri, molti libri. Qualche bottiglia. È tranquillo, pacato, non vuole parlare di politica. Che fa ora? «Sono in pensione». Però produce anche vino? «Ora se ne occupa mia figlia maggiore, Giulia».
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Che fa ora? «Sono in pensione». Però produce anche vino? «Ora se ne occupa mia figlia maggiore, Giulia». Ma dalla passione (sua) per il vino è nata una piccola cantina incuneata nella vallata che sale dal borgo di Otricoli verso Narni. Vitigni internazionali – «quelli che piacciono a me» – pinot nero e cabernet franc. Lo spumante Metodo Classico, il suo orgoglio. «Basta che non me lo confondiate con il Prosecco, con tutto il rispetto ma il nostro Metodo Classico sta sui lieviti cinque anni…». Quindi non le piace il Prosecco? «È un’invenzione geniale». Fa una pausa. E poi un’altra ancora. È l’uomo delle pause. «Chapeau al Prosecco, purché sia chiara la distinzione, sono prodotti diversi».
In Umbria ci sono finiti un po’ per caso. «Mia moglie mi ha detto “basta, siamo diventati vecchi, vendiamo la barca a vela, dobbiamo trovarci una casa in campagna”». La trovano. C’era del terreno. «Ma perché non facciamo il vino?», le ho detto. L’enologo Riccardo Cotarella ha fatto il resto. E nel 2008 la famiglia D’Alema apre La Madeleine.
Chianti indimenticabile
«A 75 anni è un problema serio risalire nel tempo», dice quando gli chiediamo qual è il vino che ha acceso la sua passione enologica. Prova a ricordare, a fatica, si aiuta guardandosi intorno, e piano piano risale tra i ricordi, le feste del liceo dove beveva in modo inconsapevole, «c’era più interesse per l’alcol che per il vino». Il periodo pisano dell’università. «Una famiglia di amici produceva un Chianti in collina». Quel vino se lo ricorda eccome. Erano i leggendari fine anni Sessanta. Camicia con sopra maglione e giacca era l’outfit in voga. «Un periodo veramente indimenticabile», dice nostalgico mente tamburella con le dita sul tavolo.
La politica e il vino hanno qualcosa in comune? «Vorrei dire una cosa tremenda». Ci pensa e la dice così come gli viene: «Attirano molti rompicoglioni». Poi torna a vestire i panni del politico che sa cosa dire e come dirlo senza scivolare: «Sono due lavori che richiedono una grande professionalità, ma spesso si pensa che si possano fare in modo amatoriale».
MASSIMO D’ALEMA E LA MOGLIE LINDA GIUVA
Nel 2021 il testimone dell’azienda è passato alla figlia Giulia che sta facendo una piccola rivoluzione. I vitigni internazionali tanto adorati da papà non si toccano, per carità, ma Giulia D’Alema ha deciso di inserire nella batteria anche un vitigno autoctono. Avanti con il Ciliegiolo che verrà presentato in anteprima al Vinitaly di Verona. «È una nuova creatura». Affina in barrique, in bocca un’importante spalla acida. «Un ciliegiolo ambizioso».
È il vino di Giulia, lungimirante, con un passato lavorativo nel marketing, tornata per prendere in mano l’azienda. Anche per rinnovarla. «Mia figlia mi ha detto che dobbiamo rispettare la vocazione di questo territorio, l’ho lasciata fare, l’azienda ora è sua». Il cambio generazionale a casa D’Alema guarda con occhio attento anche ai cambiamenti del mercato.
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MASSIMO D’ALEMA E GIORGIO NAPOLITANO
Si intravede ambizione e, permetta, un po’ di avanguardia. «È più giovane», risponde piccato. «Giulia si è occupata per molti anni di marketing, io non avevo competenze di economia di azienda». Presidente, dimentica che ha governato un paese. Per due volte. «Ho fatto il vino che piaceva a me». Prospettive diverse. E cambio generazionale in corso.
Sono stati accolti bene dagli altri produttori. «È una comunità». Meglio della politica, che è «più carica di rancori» e «invidie». Colleghi produttori che stima? «Tanti. Gianfranco Fino, ad esempio, fa dei grandi vini a Manduria». È il dirimpettaio di Bruno Vespa. Il suo vino le piace? «Abbiamo lo stesso enologo!», risponde sornione mentre volge lo sguardo verso gli scaffali della libreria. E quello di Renato Brunetta lo ha assaggiato? «Sì, in una di quelle degustazioni a cui ogni tanto partecipo», dice poco convinto. Meglio come ministro? «Ma chi Brunetta? Meglio che si impegni a fare il vino». E Giorgia Meloni che vino è? «Un Cesanese, è ruspante».
Ne ha un po’ per tutti Massimo D’Alema. Una delle sue bottiglie è arrivata anche al Nazareno. Destinatario: la segretaria del Pd Elly Schlein. «Un vino di buon augurio, ma non so se lo ha bevuto». Con il vino fa gli auguri, come dice lui. A Natale e le sante festività è solito regalare le bottiglie famiglia. «Le pago», tiene a sottolineare. Prima glielo imponeva la moglie, Linda Giuva, ora la figlia. «Se pago subito mi fanno il 5% di sconto». Giocherella con una penna e ridacchia.
D’Alema è stato uno dei primi politici a utilizzare il cibo in tv. Il 13 ottobre 1997 appare nel salotto di Porta a Porta insieme a Ferruccio De Bortoli. Il tema della serata è una cosa serissima e poco televisiva come la riforma costituzionale in discussione alla Bicamerale. Lo stile di conduzione di Vespa è noto: un mix di politica e intrattenimento, per cui gli ospiti intenti a discutere animatamente sui destini del Paese all’improvviso si trovano a dover condividere le passioni della gente comune. A risvegliare il pubblico quella sera c’era lo stesso D’Alema.
Va in onda il siparietto tele-culinario del segretario del Pds intento a cucinare a casa di amici. Con tanto di grembiule. Di chi fu l’idea del risotto? «Non la mia». E di chi allora? «Non è importante». E perché l’ha fatta allora? «Era un format». Quindi non era per addolcire la sua immagine severa. «Mi è sempre piaciuto cucinare». Peccato però quell’aggiunta di vino rosso che ha generato un bel po’ di critiche. Si mette ai fornelli il sabato e la domenica, quando va in campagna. In passato, tra un incarico di partito e di governo. «Mia moglie è una professoressa universitaria, di grande cultura, che si è fatta carico di tutti gli impegni fondamentali della famiglia a partire dai figli». Tutti ma non di cucinare. A quello ci pensava lui. E ride: «Il risotto ho imparato a farlo, all’occorrenza ci metto il vino bianco».
È lui il primo politico, dicevamo, ad aver portato il cibo in tv. Poi sono arrivate le doppie margherite, i gelati e i pop-corn di Renzi. Se le ricorda? «Indimenticabili». È ironico. Giuseppe Conte, quando era premier, con l’hamburger notturno a New York a favore di telecamera, impegnato nei lavori dell’Assemblea dell’Onu. Così come l’antagonista numero uno del leader M5s, Luigi Di Maio, all’epoca fuori dal partito pentastellato, ex ministro, trasformò una trattoria – Nennella a Napoli – nel set di Dirty Dancing, volando in aria come una pizza gigante sorretto dai camerieri. Un trend che Matteo Salvini ha saputo cavalcare meglio di altri, dai risotti alla carne coltivata, non crede? «Non lo so, questo me lo dovete dire voi che siete gli esperti».
D’Alema ha un rapporto col cibo che ha radici profonde. Da direttore dell’Unità – «erano gli anni Ottanta» – lanciò un inedito supplemento per i consumatori. Il Salvagente. C’era una parte importante dedicata al cibo e al bere. «Uno dei collaboratori era Carlin Petrini». All’epoca non erano in molti a conoscerlo, ma oggi il fondatore di Slow Food è una mezza celebrità nel settore. Il giornale del Pci tutti gli anni organizzava un evento a Montalcino dove veniva premiato il miglior ristorante delle Feste dell’Unità. «Un grande momento popolare». A dirigerlo era sempre D’Alema.
Come presidente del Consiglio è stato uno dei promotori del Salone del Gusto di Slow Food. Ecco il ricordo: fine anni Novanta, D’Alema sale sul palco, e dedica tutto l’intervento all’importanza dell’enogastronomia nella civiltà europea. «Un tema che mi ha sempre appassionato».
Al termine, Alexandre de Lur Saluces si avvicina a D’Alema e gli dice: «Monsieur le président, non pensavo di ascoltare un intervento così intéressant da un capo di governo». Insomma, Salvini non si è inventato nulla col cibo? «Non c’erano i social, quello scambio rimase privato, mostrare certe cose è fastidioso». Oggi però si può raccontare. Il marchese qualche giorno dopo inviò a D’Alema una bottiglia di Château d’Yquem del 1967. L’annata del secolo. Firmata dal re del Sauternes francese.
I vini naturali sono di sinistra. Vinicio Capossela, provocatoriamente, in un’intervista al Gambero Rosso, ha detto che ha visto le menti migliori della sua generazione perdersi dietro al nettare dei vini naturali, mentre la destra si prendeva l’elettorato. E pure il governo. «I vini o sono buoni o sono cattivi. Le altre distinzioni le considero secondarie». E la chiude lì, un po’ seccato. Anzi no, ci ripensa. «Non si può essere prigionieri di idee che ti obbligano ad assistere alla morte di un intero vigneto perché non ci puoi mettere il verderame sopra una certa quantità».
(…) E l’esonero di Mourinho? «La Roma è come la sinistra, il problema non era l’allenatore ma la mancanza di un progetto».
Quando torna a Prati va a mangiare Da Gianni Cacio e Pepe, proprio sotto casa sua, al ristorante pugliese – «strepitoso» – I Massari. «La ristorazione romana è migliorata tanto». Quando ha ospiti importanti li porta a mangiare da Pipero, da Per Me di Giulio Terrinoni oppure al San Lorenzo per il pesce. E a breve a Roma apre il ristorante dello chef francese Alan Ducasse. «Il buyer ci ha selezionato, i nostri vini saranno in carta», dice soddisfatto.
Ma poi com’è andata a finire col presidente iraniano? I francesi facevano un gran casino, a suon di grida – «il vino deve essere a tavola, un po’ di solidarietà europea!» – ma l’Italia aveva già comunicato agli ospiti che non ci sarebbe stato. «Escogitammo un trucco». Il giorno dell’incontro arrivò. La tavola di Villa Madama era imbandita: piatti, tovaglioli, segnaposto, fiori, cristalli, un’infinità di posate. E, ovviamente, i calici.
Al posto del vino bianco venne servito del succo di mela. «Salvo per me e Scalfaro». Bevvero vino all’insaputa degli ospiti, il colore era uguale, e con la buona pace dei francesi, che alla fine Khatami non lo incontrarono. Un po’ di fantasia cromatica e la crisi diplomatica si risolve «con un inganno, a fin di bene si intende». Gli occhi gli si illuminano di un guizzo brillante.